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P. Giulio.M (per ovvi motivi si omette il Cognome) ci segnala questo estratto che -a suo dire- può ritornare utile e illuminare su una visione più larga rispetto ai giudizio sulle apparizioni di Manduria  che per "cattolico" quanto dir si voglia, resta sempre personale e molto umano specialmente in assenza di contraddittorio.Ptremmo non condividere il contenuto ma per diritto di notizia pubblichiamo per sottoporlo direttamente al vostro giudizio sempre sovrano rispetto a se stessi...
 Carlo Antonio Pilati Riflessioni di un italiano sulla Chiesa
Edizione di riferimento:
Carlo Antonio Pilati Riflessioni di un italiano sulla Chiesa, Torino 1852,
Malagevole e pericolosa impresa si è quella di un Italiano, il quale voglia mettersi a scrivere e ragionare di materie che al diritto canonico ed alla curia ecclesiastica appartengono.
Imperciocchè la verità fu dalla Corte Romana, più secoli sono, precipitata giù nel fondo di un abisso, dove essa viene da millantamila Cerberi di color rosso, e paonazzo, e nero, e scuro, e bianco, e bigio, e cenerognolo, per siffatta maniera guardata e custodita, che, se taluno mostra di vedersi soltanto dalla lunga a lei approssimare con intendimento di riconoscerla, cotesti mostri incontanente gli si avventano addosso, e l′afferrano, e mordonlo, e laceranlo, e fannolo miseramente in mille brani. Perdonici il leggitore la veemenza di così fatte espressioni, chè così Dio ci aiuti com′esse non vengono da uno spirito di calunnia, nè da un prurito di satira, nè di altra sregolata passione. La gravezza del torto che viene fatto all′italiana nazione, l′amore della patria cui la verità viene con tanto rigore tenuta celata, e lo zelo per il pubblico bene, ci traggono dalla penna questo alquanto forte ma giusto rammarico. La Francia va già, da qualche tempo in qua, colla luce delle sue dottrine scacciando da sè di mano in mano le più dense tenebre; la Germania cattolica ha già prodotti i suoi Febronii; la Polonia si va già studiando a scuotere il giogo della cecità; il Portogallo ha già avuto i suoi Pereiri; e noi Italiani, noi che una volta abbiamo fatto rifiorire nel mondo le spente scienze, noi siamo siamo soli, per le male arti e per le acerbe durezze de′ nostri proprii concittadini, costretti a dover tuttavia giacere sommersi nel fango e sepolti nel buio. Egli pare che noi siamo condannati a non dover mai vedere la verità in viso. Poichè se alcuno, cui in qualche punto sia venuto fatto di ritrovarla ardisce di venire innanzi con essa e di metterla in veduta del popolo, tosto, se gli scagliano cotro i tribunali, i frati, i gazzettieri, ed il semplice e superstizioso volgo, e con le loro crudeli minacce, con le loro mordaci satire, con le loro villane calunnie, e con i loro spaventevoli schiamazzi ogni cosa buona ed ogni giusta impresa in un col suo autore ruinano.
Noi prevediamo per noi tutti questi pericoli e questi disordini; ma non ci sappiamo nulladimeno astenere di palesare liberamente i sentimenti dell′animo nostro, e di mostrare ingenuamente come noi andiamo lungi dal vero nelle più importanti materie del diritto canonico e della storia ecclesiastica, e per le arti di chi, e per qual maniera, e per quali fini siamo stati sulla strada dell′errore messi e vi venghiamo continuamente arrestati. Noi sveleremo cosa sia propriamente la Chiesa, quali sieno i suoi diritti, quali le ragioni e l′autorità de′ suoi ministri, quali i doveri dei fedeli e del clero inverso i principi; e faremo poi vedere come e per chi in ognuno di questi punti si sia guastata la verità ed introdotto in sua vece l′errore. Iddio ci è testimonio che niun odio, niun livore, e niun′altra malvagia passione ci ha in questa impresa guidati Noi siamo cattolici, e come tali vogliamo, se la santa mano di Dio ci regge, vivere, come tali scrivere, e come tali andare dietro alla pura e pretta verità. Quindi niuna proposizione avanzeremo noi giammai, che da cattolico uomo non si possa e non si debba con tutta ragione, almeno per quanto a noi parrà, sostenere. Noi vogliamo in ciò andare più oltre ancora: poichè non solamente ci asterremo dal venire innanzi con veruna sentenza indegna di un membro della chiesa cattolica, ma ci vogliamo ancora guardare dal rivelare e mettere in mostra o con troppa accuratezza, o fuor di assoluto bisogno, le poco lodevoli arti di quelli ai quali per qualsisia cagione dobbiamo qualche rispetto. Niuna espressione indegna, niun motto satirico, niuna veemenza avrà luogo nel contesto del nostro ragionamento. Essendo adunque giusto e buono il fine che ci siamo proposti, e modesta la maniera che ci siamo prescritti di osservare nel comporre il seguente breve trattatello, noi ci lusinghiamo che ci faranno giustizia almeno le ragionevoli e giudiziose persone, e che queste s′ingegneranno affare in guisa che i princípii da noi qui stabiliti arrivino a potere una volta pigliar radice ed abbarbicare anche in Italia, la quale per ora è signoreggiata dalle inezie, dagli errori e dalle false dottrine de′ Glossatori, del Fagnani, del Bellarmino, dello Sperellio, del Barbosa, del Reifenstuel, dello Schmier, dello Schmalzgrueber, del Pichler, dell′Orsi, e di non so quanti altri impostori siffatti. Noi ci faremo dallo spiegare la natura della Chiesa.
La Chiesa è una società composta da gente che si è proposta di venerare e servire comunemente Iddio secondo la dottrina insegnata da Gesù Cristo, ad intendimento di guadagnarsi la spirituale ed eterna salute. Questa definizione serve a farci comprendere come il fine di quelli che si uniscono a questa Chiesa, e che per la fede che hanno nella dottrina di Cristo, chiameremo fedeli, non è già di conseguire alcun bene temporale su questa terra, ma di ottenere la salvezza delle loro anime nel passare da questa all′altra vita. Un uomo cristiano può adunque essere considerato per due differenti maniere; cioè: prima come cittadino in una società civile, e poi come membro della società spirituale e cristiana. Come cittadino di uno Stato civile, egli ha per suo oggetto i beni temporali della vita presente; e, come membro della Chiesa cristiana, ha egli la sua mira unicamente rivolta al bene dell′anima sua nella vita futura. Come cittadino di uno Stato, egli pretende di poter godere quella parte dei comodi e dei diritti temporali che nelle società civili sono dovuti ad ognuno secondo la particolare condizione di ciascheduno; come cristiano, egli si tiene da per se stesso per istraniero su questo mondo, e si riguarda per un pellegrino che è fuori della sua patria, la quale è nel paradiso, e che si è posto in cammino per andare alla volta di quella. In somma, come cittadino di una società civile, egli s′ingegna di procacciarsi i beni del corpo; e, come membro della chiesa, egli è unicamente sollecito per quelli dell′anima. L′apostolo san Paolo ci avverte che, fintantochè noi altri cristiani siamo in questo corpo mortale, noi facciamo un viaggio che ci va avvicinando al Signore: «Noi non abbiamo qui (dic′egli) una città stabile e permanente: quella che noi cerchiamo, si è nella vita futura.» Egli ci narra in un altro luogo, che gli antichi patriarchi si riguardavano come stranieri su questa terra, e che essi volevano con ciò dimostrare che andavano in cerca della loro patria: «Eglino vanno cercando (dic′egli)quella che è la migliore, cioè quella che è nel paradiso.» «Il fratello di Tito (dic′egli ancora altrove) è stato dalle Chiese ordinato, perchè ci faccia compagnia nel nostro pellegrinaggio.» «Tendevi (dice san Pietro a′ suoi fedeli) per istranieri e viaggiatori» [1] .
Dalla differenza dei fini, che l′uomo si propone come cittadino di uno Stato e come membro della Chiesa, si può agevolmente argomentare che diverso ancora abbia da essere l′oggetto della società ecclesiastica, ossia spirituale, da quello della società civile. L′oggetto di questa si è di stabilire e conservare fra i cittadini un certo ordine ed una certa polizia esteriore, e di mantenere fra di loro la pace e la concordia. L′oggetto di quella si è di mantenere fra i fedeli la dottrina di Gesù Cristo, d′introdurre fra di loro la purità e santità de′ costumi, di penetrare fino ne′ loro cuori, e di far regnare, non solamente nelle operazioni esteriori, ma perfino negli animi stessi, la giustizia e la virtù. Sicchè i principi della terra si contentano che i loro sudditi ubbidiscano esteriormente alle loro leggi, e che le azioni esterne de′ sudditi siano conformi a quel tanto che dalle leggi viene ordinato. Per mantenere l′ordine e per conservare la pace nelle società civili basta che le azioni de′ cittadini siano buone e giuste; e non vi è bisogno che buono e giusto sia ancora l′animo e la volontà di chi le opera. Nelle repubbliche e negli Siati civili non hassi adunque riguardo veruno alla bontà o malvagità degli animi dei cittadini, ma solamente alla bontà e malvagità delle loro azioni. Quindi le leggi civili promettono de′ premi alle buone azioni, e minacciano delle pene alle cattive. Dove, all′incontro, se le medesime leggi civili avessero la mira di rendere buoni e giusti solamente gli animi de′ cittadini, i premii e le pene a nulla potrebbero servire, perchè, per obbligare l′animo umano a voler tenere, e riguardare per bene il bene e per male il male, è necessario che esso animo sia prima di tutto persuaso che il bene sia bene e che il male sia male. Ora questa persuasione dell′animo non può venire operata e prodotta dalla promessa de′ premii o dalla minaccia delle pene, ma solamente dalla forza degli argomenti e delle ragioni. Le pene non l′illuminano, non persuadono, non convincono l′intelletto, ma l′obbligano soltanto a dover, anche suo malgrado, fare una azione la quale egli non ama, o ad ometterne un′altra che avrebbe talento di fare. Ma, siccome per conservare l′ordine e la tranquillità tra′ cittadini basta che buone siano le loro azioni, benchè buoni non siano i loro animi, così nella società civile delle pene e dei premii conviene far uso.
All′ incontro, la società spirituale non si contenta dell′esteriore: ch′essa vuole ancora penetrare nell′interno dell′uomo. Essa vuole che non solamente riescano giuste e rette le azioni de′ fedeli, ma che principalmente giusti e retti siano gli animi. Ma l′animo non può amare la giustizia e la pietà, se non le conosce: ed a fargliele conoscere non giovano le pene, non i premii, non la forza e non le lustrine, ma gli argomenti, le ragioni e la persuasione. L′oggetto della società spirituale si è di rendere felice ogni fedele dopo la morte sua. E, perchè l′uomo possa ottenere, partendo da questo mondo, la salute eterna, è necessario ch′egli abbia avuto in questo mondo un animo giusto, religioso e pio. Se tutte le azioni sue sono state buone, e se l′animo suo è stato cattivo, egli ne sarà però punito al pari di qualunque altro malvagio uomo. Ma, siccome quaggiù non si può giudicare della malvagità e della bontà dell′animo dell′uomo se non se per mezzo delle azioni ch′egli va operando, così la società ecclesiastica tiene quello che bene adopera per un fedele dotato di un animo buono, e quello che commette di cattive azioni per uomo di animo corrotto e guasto. La medesima società ritiene il primo nel suo grembo, e ne scaccia il secondo, siccome quello che ad altro non potrebbe servire che a frastornare e scandalizzare gli altri. Questa società non fa uso di alcuna pena temporale per punire le cattive azioni de′ suoi malvagi membri, perchè tali pene non potrebbero giammai servire a rendere migliori gli animi rei. Con esse altro non si farebbe che impedire i disordini nella società di questo mondo. Ma lo scopo di questa società si è di mettere e mantenere i fedeli su quella via che conduce alla salute dell′altro mondo. Ora, per fare che gli animi de′ fedeli amino di stare su questo sentiero e che non venga loro la voglia di allontanarsene, conviene convincerli a forza di ragioni e di argomenti; poichè, a volerli per mezzo delle pene obbligare che stieno malgrado loro sulla strada che hanno presa, che non abbiano a fare alcun passo fuori di quella, ne avverrà ch′essi vi staranno, per timor del castigo, contro ogni lor voglia. Ma, come saranno poi giunti davanti al cospetto di Dio, egli non li riceverà, e li scaccierà lungi da sè, siccome quegli che conosce essere costoro venuti pieni di mal talento e con un animo alieno e cattivo, per cui meritano di non essere ricevuti nel paradiso. Laonde le pene per le quali la gente viene obbligata a fare delle buone azioni contro la sua propria volontà sono contrarie allo scopo che si prefigge la società ecclesiastica, la quale cerca unicamente di perfezionare le volontà e gli animi de′ fedeli, acciocchè Iddio li giudichi poi degni dell′eterna salute. Ma benchè l′oggetto della società ecclesiastica sia di migliorare gli animi umani, ciò però nonostante è altresì vero ch′essa non deve tollerare coloro i quali colle loro azioni perturbano l′ordine della società e scandalizzano o guastano gli altri fedeli. Come ha dunque da contenersi con costoro la Chiesa? Li deve ella punire? Ma questo nulla gioverà; perchè le pene non renderanno nè più giusto nè più retto l′animo loro; ed ella nutrirà però tuttavia nel suo grembo gente malvagia, la quale s′oppone allo scopo principale di essa Chiesa, che è di condurre tutti i suoi membri alla salute eterna. L′unico buon mezzo adunque si è di scacciare e tenere lungi costoro, che sono membri perniciosi, dal seno della Chiesa, e di non permetterne loro nuovamente l′ingresso fino che non avranno date chiare riprove di essersi emendati nell′animo e di avere adottati sentimenti migliori.
Questo è un punto così impotente che non è da abbandonare sittosto [2], e che sarà bene di stabilirlo e confermarlo con altre ragioni ancora. Noi possiamo riguardare le pene temporali per qualunque verso che noi vogliamo; noi troveremo ch′esse, lungi dall′essere utili alla Chiesa od a suoi membri, vengono ad essere sommamente dannose. Perchè, o esse tolgono all′uomo la libertà naturale ch′egli ha di poter operare tauto il bene come il male; allora l′uomo non ha più verun merito per le sue buone nè alcun demerito per le sue cattive azioni. Ma senza verun merito non può l′uomo sperare nè guadagnarsi la salute eterna, nè senza verun demerito temere nè attirarsi l′eterna condannazime. Sicchè in tale caso l′unico fine cui la Chiesa ha in mira, ch′è di guidare all′eterna beatitudine, resta senza effetto; e però si rende inutile ogni ecclesiastica società, e per conseguenza ancora la religione cristiana, il cui scopo è quel medesimo della Chiesa, cioè di condurci alla salute eterna. Oppure le pene non privano altrui della facoltà di operare sì il bene che il male a suo talento; e lasciano nell′uomo in tutto il suo vigore la libertà di scegliere il bene, e quindi di farsi merito: o di attenersi al male, e però di farsi del demerito; ed allora le pene sono inutili, siccome quelle che ad altro non giovano che a tormentare crudelmenle la gente, senza poter produrre frutto veruno.
L′uso delle pene e l′autorità di obbligare altrui per via della forza sono adunque cose contrarie alla natura, alla proprietà ed all′essenza medesima della società ecclesiastica; primieramente, perchè esse non servono a rendere buono l′animo che sia cattivo; secondariamente, perchè queste non istruiscono l′uomo de′ suoi doveri, ma solamente gli ispirano spavento; e, finalmente, perchè impediscono che l′uomo non possa operare liberamente a suo talento, e farsi a posta sua presso nostro Signore del merito colle buone azioni o del demerito colle cattive; laddove il vero oggetto della Chiesa ha da essere di ben ammaestrare i suoi fedeli, di rendere buoni e perfetti gli animi loro, e di guidarli pel sentiero che mena al paradiso, di lor proprio grado, perchè Iddio li voglia ricevere, e non già a loro dispetto col capestro alla gola, poichè, essendo da Dio conosciuti per tali, sarebbero con tutto ciò condannati da lui e mandati in perdizione.
Chi viene dalla forza costretto a dover suo malgrado far delle azioni buone, viene sempre a concepire nell′animo suo tanto maggiore abborrimento sì della violenza che gli viene fatta come di quelle medesime azioni che gli vengono comandate. Quindi, quanto più altri viene sforzato a far delle buone azioni; tanto più verrà l′animo suo reso cattivo, per l′odio ch′egli concepirà di ogni cosa buona, e per l′amore che acquisterà delle cose malvagie e vietate da Dio.
Queste si furono le cagioni per le quali Gesù Cristo medesimo non ha voluto su questo mondo mettere in opera la forza per convertire la gente, e per obbligarla a stare, quando una volta ci fosse, sul diritto sentiero. E per questo appunto diss′egli ch′ei non era venuto per giudicare, ma unicamente per salvare il mondo. Ei lasciò ad ognuno la libertà di seguitare o di rifiutare i suoi comandamenti: ed egli ammoniva soltanto la gente, che chi avesse posto in non cale i suoi precetti ne sarebbe poi stato castigato da Dio nell′altro mondo [3]. Sicchè l′esempio che il Salvatore ha dato alla Chiesa nostra si è di avvertire i fedeli che tengano a mente, custodiscano e mettano in opera i precetti di Dio, e di ricordare loro che, se non faranno così, ne saranno nell′altra vita castigati dal supremo Giudice di tutto l′umano genere. Imperocchè, se lo stesso Salvatore ha stimato di non dover giudicare nè punire niuno su questo mondo, nè di poter usare violenza con chicchessia, con che ragione potrà poi fare tutte queste cose, e scostarsi dall′esempio di Cristo, la Chiesa? L′istesso apostolo san Pietro, cioè quel desso su cui, come base e fondamento, stabiliscono i romani pontefici la loro autorità di comandare a tutti i fedeli e di punire i rei, raccomandò caldamente a′ suoi ch′essi volessero dare opera a pascere le loro greggie in maniera che non usassero violenza veruna, ma che le riducessero a voler ricevere di loro buon grado il pascolo, e che non si dessero a voler dominare tra i fedeli, ma che si contentassero a guidarli, siccome quelli che spontaneamente hanno da mettersi e da dimorare fra la greggia [4]. Gesù Cristo costumava di provare la verità della dottrina ch′ei predicava coll′opere de′ miracoli che servissero a confermare quello ch′ei diceva: ma egli non puniva già coloro che non volevano ascoltarlo o che rifiutavano la sua dottrina dopo di averla udita. I suoi, discepoli gli dissero un giorno, ch′egli dovesse punire i Samaritani perchè ricusavano di riceverlo: ed egli rispose loro: «che il Figliuolo di Dio non era venuto a condannare, ma a salvare gli uomini.» Luc. IX, 56.
Vorrassi per avventura contrapporre a quello che abbiamo detto e mostrato finora l′esempio di s. Paolo che ha tolto la vista ad Elymas, e quello di s. Pietro che ha fatto morire Anania di morte subitanea? Ma questa comparazione non procede: primieramente, perchè queste pene furono dagli apostoli eseguite miracolosamente; e la Chiesa ed i suoi ministri non hanno la virtù di operare miracoli, se a taluno de′ fedeli non viene per particolare disposizione di Dio attribuito un siffatto potere. Ora, perchè la Chiesa potesse arrogarsi di potere con ogni sorta di pene castigare a suo piacere i miscredenti, sarebbe necessario che Iddio avesse una volta per sempre conceduta a tutta la Chiesa insieme una tale autorità; ch′egli l′ avesse annessa ad un certo e determinato uffizio, di modo che chiunque fosse in quell′uffitio dovesse potere, ogniqualvolta gli paresse, castigare i rei: ma ciò non si vede che Iddio abbia fatto nè ordinato giammai. Sicchè lo essere stata da lui, per i suoi a noi nascosi ed impenetrabili fini, commessa a qualche sua diletta creatura la potenza bisognevole per dovere in tal o tal altro determinato caso punire miracolosamente taluno, non fa che sotto questo pretesto la Chiesa possa arrogarsi la ragione di potere per i modi ordinarii degli uomini, e non per alcuna miracolosa maniera, punire i disubbidienti e malvagi suoi membri. Secondariamente, questi medesimi apostoli che hanno castigato miracolosamente la temerità di Anania e la miscredenza di Elymas, hanno seguitato in tutto il rimanente della loro missione l′esempio del divin Salvatore, cioè di ammaestrare solamente i fedeli, e non già di obbligarli per via della forza a dover prestar fede alle loro dottrine. Laonde la Chiesa ed i suoi ministri debbono prendere ad imitare la condotta ordinaria di questi apostoli, e, se hanno talento di punire altrui, o hanno da fare per la via de′ miracoli, e però per particolar volontà di Dio, alla qual eosa niuno intende di opporsi giammai.
Del medesimo sentimento conviene che fosse ancora san Giovanni Crisostomo, giacchè ei s′esprime su di ciò nella seguente maniera: « Niuna potenza può essere paragonata colla nostra. » E per qual ragione? Perchè tutta la facoltà di prendere la medicina e di ristorare la sua salute è posta del tutto nell′arbitrio dell′ammalato, e non già nel volere di quello che dà la medicina. Il che essendo stato conosciuto dall′ammirabile san Paolo, così parla a quei di Corinto: Non « già che noi volessimo dominare sopra di voi nel nome della fede. Non quod dominemur vobis nomine fidei. Poichè ai sacerdoti cristiani non è lecito nè poco nè punto di correggere per via della forza le cadute dei peccatori. Quivi conviene mettere in opera la persuasione, e non già fare uso della violenza. Perocchè non ci fu data dalle leggi una tanta autorità di poter castigare i delinquenti, e, posto ancora ch′essa ci fosse stata conceduta, non avremmo campo da poterla esercitare, giacchè Cristo a quelli solamente dona la corona eterna, i quali, non per forza, ma di lor proprio grado e per loro costante proponimento si astengono da′peccati. Imperciocchè, se colui che viene tenuto stretto e legato pur resiste tuttavia, egli fa male al certo: ma non v′ha però niuno quaggiù che abbia l′autorità di sforzare la sua volontà, e che possa guarirlo a suo dispetto [5].» Per questa medesima cagione disse Tertulliano che non è della religione l′obbligare alla religione, la quale non per forza ma spontaneamente ha da essere abbracciata: Nec religionis est cogere religionem, quae sponte suscipi debet, non vi. Ad Scapulam cap. II. In questo stesso senso scrisse Lattanzio nel lib. V, cap. XIV: che niente dipende cotanto dalla volontà come la religione, la quale, quando l′animo ne è avverso, resta levata del tutto e non è più niente. Nihil tam voluntarium quam religio est, in qua si animus adversus est jam sublata, jam nulla est. Se Iddio avesse voluto che si potesse far qualche uso delle pene, egli non avrebbe detto ai suoi discepoli, i quali volevano estirpare la mal′erba dal campo, ch′essi la dovessero lasciar stare, sicchè potesse crescere anch′essa insieme colle frugi: Matth. XIII; colla quale similitudine il Vangelo allude ai peccatori che vi hanno tra i fedeli, i quali per questo non vanno estirpati.
Da tutto questo che abbiamo detto finora ne segue che non solo la ragione, ma sippure la dottrina e l′esempio di Gesù Cristo e la pratica degli apostoli non permettono che la Chiesa possa usar violenza contro qualsisia de′ suoi membri. Quivi richiedesi una sommissione ed una ubbidienza tutta spontanea ai comandamenti di Dio. Gesù Cristo si è espresso più volte, verso coloro che l′ascoltavano, che il suo regno non è di questo mondo; e ch′egli non è venuto quaggiù per fare il giudice, ma solamente per guidarci alla salute eterna. Dunque le pene, alle quali hanno da essere condannati i peccatori, non sono di questo mondo, ma dell′altro, giacchè neppure il regno del Salvatore non è di questo ma dell′altro mondo. La Chiesa non ha altra autorità che di ammaestrare, di ammonire e d′intimorire i malvagi ed infedeli cristiani, procurando di sanare il loro animo infermo o con la saviezza della dottrina ed or colle minacce delle pene dell′altra vita. E, se tutto questo non giova a convertire il peccatore allora ella lo deve scacciare fuori del suo grembo e riguardarlo come uno straniero. Questa è tutta l′autorità che il divin Salvatore ha data alla Chiesa.
Non potendo pertanto nella Chiesa aver luogo le pene e i premii, ne viene che il tutto si riduce all′ammaestrare ed all′imparare, al pascere ed al ricevere il pascolo, al guidare dolcemente per la via del Signore ed al lasciarsi di propria voglia guidare. Laonde i membri della Chiesa altri sono maestri ed altri sono discepoli. I maestri insegnano e sostengono alcuni ufficii in nome della Chiesa; i discepoli li ascoltano, e ricevono le loro istruzioni, e si servono, quando occorre, del loro ministero. Questa divisione de′ membri della Chiesa in maestri ed in discepoli viene da Cristo medesimo e da′ suoi apostoli. Dagli Atti degli apostoli osservasi ancora che i maestri venivano designati sotto il nome di Clerus e tutto il rimanente del popolo veniva chiamato Laos. Chierici erano gli apostoli, i seniori ed i diaconi. Tutti gli altri erano laici. Il Boehmero nelle sue dissertazioni Jur. eccl. antiq. dissert. VI, ed il Pertschio nelle sue Vindiciae notionis vocis cleri genuinae, sostengono che questa divisione de′ membri della Chiesa in chierici e laici sia stata introdotta e inventata da′ sacerdoti solamente nel secolo terzo, e che nella chiesa apostolica non fosse mai stata nè conosciuta nè adoperata. Ma il Mosheimio ne′ suoi commentarii Rer. Christ. pag. 122, il Pfaffio nelle orig. Jur. eccl. ed il Buddeo De eccl. apost. pag. 611, mostrano ad evidenza il contrario: e l′antichità di questa distribuzione de′ fedeli fu poi anche dal celebre padre Mamachi con forti ed incontrastabili argomenti messa in chiaro. E non abbiamo che da dare un′occhiata ai testi della Sacra Bibbia Eph. IV, 11 Corint. XII 28, 29; Haebr. XIII, 7, 17; Jac:. III, 1, per poter manifestamente comprendere che fino dal principio della Chiesa i fedeli furono divisi in ecclesiastici, il cui uffizio era d′insegnare e di esercitare le altre ecclesiastiche funzioni, ed in membri del popolo, che non avevano cotali uffizii.
Ma, quantunque altri fossero chierici ed altri laici, tutti i fedeli erano nondimeno fra di loro perfettamente uguali. La distinzione che v′aveva fra di loro per cagione dell′uffizio non produceva alcuna distinzione di superiorità, di potenza o d′impero. La Chiesa era allora, siccome deve essere in ogni tempo, una eguale società de′ fedeli, nella quale niuno ha l′autorità di comandare e niuno è obbligato di ubbidire, niuno è superiore e niuno inferiore, niuno è principe e niuno è suddito. Noi abbiamo fatto vedere di sopra, che nella Chiesa non vi è luogo alla distribuzione dei premi e de′ castighi temporali. Da ciò ne viene adunque che non vi può neppure essere alcuno che abbia da comandare, perchè egli è inutile il comandare là dove niuno può lecitamente venire costretto, dalla minaccia delle pene, di dovere a suo malgrado ubbidire ai comandamenti ed alle leggi di quello che vuol essere tenuto per superiore. Gesù Cristo ed i suoi apostoli, volendoci far vedere che, come cristiani, tutti siamo eguali fra noi, e premendo loro che questa massima venisse osservata in pratica, hanno introdotto il costume di chiamarsi vicendevolmente fratelli e sorelle. Actor. VI, 2. I signori grandi ed i piccioli, i ricchi ed i poveri si nominavano fra di loro tutti senza eccezione veruna fratelli e sorelle ogniqualvolta si radunavano ad esercitare opere cristiane. Dopo finite le sacre funzioni costumavano tutti i fedeli di darsi a vicenda de′ baci; gli uomini baciavansi fra di loro; e così facevano pure fra di esse le donne. Alle loro agape tulli i fedeli si ponevano a sedere e mangiare insieme, senza osservare fra di loro distinzione veruna.
La medesima parola Chiesa (Ecclesia) mostra bastevolmente che la società dei fedeli debba essere eguale, e che in essa non vi sia luogo ad impero nè a superiorità veruna. Imperciocchè Ecclesia significa una qualunque moltitudine e radunanza di gente per qualche maniera fra di sè unita. E la Chiesa, cioè l′Ecclesia, rimane ancora, benchè i fedeli fossero così fattamente per diverse parti del mondo dispersi che non potessero ragunarsi fra di loro, poichè in tale caso cesserebbe solamente il nome di congregazione e di radunanza, il quale non si confarebbe più ad una tale Chiesa, ma rimarrebbe nulladimeno quello di Chiesa, o Ecclesia, perchè a questo, effetto basta che vi siano dei fedeli i quali fra di loro col legame della medesima fede e del medesimo spirito siano stretti o collegati. Il che fu ampiamente provato da Campegio Vitringa nel suo trattato de Synag. Veter. lib. 1, p. 1, cap. 1. Ora, siccome, quando i cristiani fossero in qua e in là dissipati, impossibile cosa sarebbe che qualcuno tra loro comandasse e che gli altri ubbidissero; così, essendo anche uniti, non vi ha d′avere luogo impero veruno, perchè la Chiesa non muta per questo la sua natura, e i cristiani uniti non hanno da essere di diversa e di peggiore condizione dei cristiani dispersi.
Ma che occorre andar cercando ragioni per provare che nella Chiesa tutti siano eguali in quanto sono membri di essa, e che niuno possa arrogarsi l′autorità di superiore? Questo ce lo insegnò pur chiaro Gesù Cristo medesimo quando ei protestò che il suo regno non è di questo mondo [6] e ch′egli non era venuto a fare il giudice di nessuno [7]. Il divino Salvatore spiegò su di ciò altrove la sua volontà per una maniera più chiara ancora. Poichè egli disse agli apostoli, ch′eglino dovessero sapere che toccava ai re a comandare agli uomini, e che però essi apostoli non dovessero fare il medesimo [8], La dottrina di Cristo fu osservata e ripetuta da san Paolo, il quale professò ingenuamente a′ fedeli, che nè egli nè i suoi colleghi non intendevano già di arrogarsi alcun impero sopra la loro fede [9] . Quindi raccomandò ancora san Pietro a′ suoi compagni, che non si mettessero a voler dominare sopra i fedeli, ma che li trattassero come una greggia che si era di sua propria volontà formata [10].
Per questa cagione praticavasi da′ vescovi della prima Chiesa di scrivere le lettere che occorreva mandare ad altre chiese e congregazioni di fedeli, non già sotto il loro proprio nome, ma sotto il nome di quella Chiesa da cui venivano spedite le lettere e della quale essi erano vescovi. Quindi Clemente vescovo di Roma scrivendo ai Corintii così si esprime: « La Chiesa di Dio che dimora a Roma, alla Chiesa di Dio che soggiorna a Corinto.» Dei Ecclesia quae Romae diversatur, Dei Ecclesiae quae Corinthi habitat. Eusebio nel lib. IV della sua Storia ecclesiastica riferisce la seguente formola: Ecclesia Dei quae est Smirnae  Ecclesiae Dei apud Philomelium et omnibus ubicumque terrarum sanctae et catholicae Ecclesiae populis, misericordia et pax: cioè: «la Chiesa di Dio che è a Smirna, alla Chiesa,di Dio che è presso Filomelio ed a tutti i popoli della santa e cattolica Chiesa di qualsisia parte della terra, misericordia e pace.» Diverse altre somiglianti espressioni ritrovansi presso lo stesso Eusebio in altri vari luoghi della sua storia, come per cagione di esempio nel lib. 5, cap. 1 e cap. 24. Vi ha un passo di Tertulliano, il quale serve ottimamente a confermare quanto in questo proposito è stato detto da noi. Egli nel trattato de Idol. cap. 18 così si esprime: « Gesù Cristo non avendo voluto esercitare alcun impero neppure sopra di quelli per amore dei quali egli si è abbassato al sordido ministero di lavare loro i piedi, ed avendo egli inoltre, avvegnachè fosse consapevole di possedere un regno, rifiutato di essere fatto re, egli ha con questo suo contegno prescritta una forma perfetta a′ suoi per la loro propria condotta ancora, che è di dirigere senza l′ambizione ed il fasto nè di dignità nè di potenza» [11]. Questa dottrina viene insegnata da s. Crisòstomo [12] e da altri scrittori ecclesiastici [13]; talchè non si può dubitare che ne′primi tempi della Chiesa essa non fosse comune a tutti i cristiani.
Egli è vero che il divino Redentore attribuisce talvolta alla congregazione de′ suoi fedeli il nome e titolo di regno; Matt. XIII. Ma egli è altresì vero ch′egli dichiara se stesso e non già alcun altro per capo e re di cotesto regno; Joan. XVIII 36; Luc. 1, 32. Egli si è riserbato per se solo il diritto di stabilire delle leggi: Jacob. IV, 12; Matth. XXIII, II: il diritto di punire; Matth. XIII, 14: il diritto di distruggere i nemici del suo regno; e tali altri diritti. Con questo ha egli voluto darci ad intendere che il suo regno è spirituale e non temporale, e che esso solo e non già qualcun altro ancora è il re che comanda in cotesto regno. Il divino Salvatore chiama questo regno il regno del cielo; e colassù niente hanno da fare gli uomini della terra. Quindi egli si è apertamente protestato che vi è un solo legislatore, a cui tocca di salvare e di condannare gli uomini, e che tale diritto non appartiene a veruna creatura umana: Jacob. IV, 12. Per questa medesima cagione comandò egli a′ suoi discepoli che non si dovessero far chiamare rabbi, e che non si arrogassero l′autorità di imporre al popolo delle dottrine a posta loro, come andavano allora facendo certi ebrei ma che si sovvenissero ch′essi erano tutti fratelli, e che il maestro non era che un solo: Matth. XXIII, 8.

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